Gli episodi dei martiri cristiani di Florentia raccontati in “Elisboth” sono conseguenze della persecuzione di Decio, che colpì duramente i cristiani in tutto l’impero. Tutte le storie sono senz’altro arricchite da particolari leggendari introdotti da cronisti medioevali; ma il loro raffronto, la considerazione del contesto culturale e in ogni caso una loro attenta lettura rafforza il contenuto della base di veridicità del loro racconto. Ve ne propongo alcune.
San Miniato Trovate in “il mondo di Elisboth” un brano che racconta la morte eroica di San Miniato, tratto dal libro di Giuseppe Maria Brocchi sulle “Vite de’ santi e beati fiorentini” del 1742.
Sette furono le prove a cui fu sottoposto Miniato: il leopardo, la fornace, il leone, l’eculeo, il piombo fuso, le offerte dell’oro e alla fine il taglio della testa. C’è una corrispondenza con i gradi della iniziazione mitraica? la successione delle torture, con la loro crudele fantasia, richiama indiscutibilmente il cammino iniziatico a cui si sottoponevano gli adepti.
C’è la leggenda del martire che, una volta decapitato prende la sua testa e risale il colle per andare a morire in cima al monte. Cosa esattamente vuole rappresentare? Le ipotesi credo possano essere due. In primo luogo, una leggenda medioevale, ripresa magari da altre storie come quella di San Dionigi a Parigi, che vedremo tra poco. Ma può essere anche un riflesso di qualche antico rito pagano che si svolgeva sulla collina in questione, loro antichissima sede.
Il racconto della passione di San Miniato ha componenti simboliche che non sempre si trovano negli atti dei martiri, che normalmente prevedono una o due tipologie di atrocità verso il condannato. La sua complessa liturgia indica che il soggetto a cui fu inflitto il martirio non poteva che essere un personaggio particolare: e un principe di Armenia, convertito al cristianesimo, era indiscutibilmente un bersaglio simbolico non indifferente.
San Cresci. La storia di San Cresci fu dettagliatamente studiata da Marco Antonio de’ Mozzi nel XVIII secolo; il suo libro, di non facile lettura, è esempio di precisione storica, archeologica e storiografica, per quanto potessero permettere gli strumenti di allora.
Chi era veramente San Cresci? La tradizione ci dice che era un ufficiale di origine tedesca, poi venuto a Florentia. Ma la lettura della sua passione fa scaturire un’ulteriore ipotesi: che fosse un ex ufficiale medico. Il racconto parla di due guarigioni, la figlia di Onione e Serapione; è plausibile che l’antica narrazione abbia trasformato in miracoli gli effetti delle sue cure sui due giovani. Non solo. Il tempio nel Mugello dove fu ucciso era intestato a Esculapio, che come tutti sanno era divinità protettrice della medicina: è significativo che i soldati vogliano imporgli di sacrificare a colui che secondo loro avrebbe dovuto essere il suo protettore, e che il nostro Cresci laicamente riteneva un idolo di pietra.
C’è un’altra importante chiesa dedicata a San Cresci, nelle vicinanze di Greve nel Chianti: la dedicazione proviene probabilmente da antichissime tradizioni. Viene da pensare che Cresci, in quel di Greve, non ci venisse solo per raccogliere i frutti di qualche campicello, ma per esercitare l’arte medica in una zona, di antica tradizione germanica. Ma il quadro non è ancora completo, perché il racconto del Mozzi, ad esempio, evidenzia fortemente il ruolo di Cresci nella comunità: è decisamente un entusiasta e convincente evangelizzatore. Non perde occasione per portare l’evangelo ai pagani, siano essi la povera famiglia di Panfila e Serapione, siano essi i soldati che lo torturano con i quali cerca in ogni modo di parlare e di convincerli dell’assurdità di quello che stanno facendo e delle superstizioni in cui credono. L’immagine che scaturisce, quindi, è veramente quella di un grande uomo: ufficiale, medico, evangelizzatore, intellettuale, martire.
San Fabiano. Chi era papa Fabiano? Era morto da poco il papa Antero, e la comunità cristiana era riunita per trovare il successore: certo non a porte chiuse, e anche il laico Fabiano che si era recato a Roma con la famiglia dalla campagna dove viveva e lavorava andò ad ascoltare la discussione. Era una fredda mattina del gennaio 236 d.C.
In una fase probabilmente molto delicata del dibattito, una colomba ebbe idea di andarsi a posare sul capo di Fabiano[1] e questo, in un momento in cui nessuno era stato identificato come degno successore di Pietro, fu interpretato immediatamente dal popolo come un segno di Dio, presenza indiscutibile dello Spirito Santo. Detto fatto, Fabiano si trovò, da agricoltore qual era, a guidare la Chiesa cristiana con indubbia capacità ed efficacia; e poi con santità, misericordia, eroismo. Riorganizzò la comunità dei cristiani in Roma, incardinando diaconi nei vari quartieri dell’urbe; inoltre mandò vescovi in varie città della Gallia.
Papa Fabiano è una delle prime vittime della persecuzione di Decio, nel gennaio del 250 d.C.
La tradizione riporta che fu lasciato morire di fame nel carcere Tullianum o Mamertino, luogo tristemente famoso in cui venivano rinchiusi i più famosi nemici di Roma politici o religiosi da Vercingetorige e Giugurta ai Santi Pietro e Paolo.
Fabiano fu seppellito nella catacomba di San Callisto, e il suo sepolcro è stato rinvenuto nel 1854 dall’archeologo Giovanni Battista de Rossi[2] nella cosiddetta “cripta dei papi”, il luogo definito dal de Rossi “il piccolo Vaticano, il monumento centrale di tutte le necropoli cristiane”. In questo luogo ci sono le tombe di papi e vescovi del terzo secolo: è quindi un luogo che offre una testimonianza straordinaria sulla chiesa di quel tempo. Sono state rinvenute le lapidi di Fabiano, Ponziano, Anterote, Lucio I, Eutichiano, Sisto II.
Una parte del corpo di Fabiano è nella cappella Albani nella basilica di S. Sebastiano sulla via Appia, dove sono presenti dipinti che raccontano fatti della sua storia quali la riammissione nella comunità cristiana dell’imperatore Filippo, scomunicato da Babila ad Antiochia.
Quando fu informato della morte di papa Fabiano, san Cipriano scrisse ai presbiteri e ai diaconi di Roma una lettera in cui ne celebrava l’esempio raccontando, ad esempio, che avesse dato indicazione di comprendere quei cristiani che per il timore della persecuzione avessero temporaneamente lasciato la comunità cristiana.
San Dionigi. Dionigi – o Dioniso – era uno dei vescovi evangelizzatori che Fabiano aveva mandato in Gallia: nello specifico a Lutezia, l’odierna Parigi. Non è facile identificare dei riferimenti certi sulla sua storia, spesso è confuso con altro Dionigi, l’Areopagita. Incerta è la data della morte, nel terzo secolo, può essere stata sia sotto Decio nel 250 che in altra persecuzione, più tardi.
Viene martirizzato sul “monte dei martiri”, il futuro Montmartre, insieme ad altri compagni: Rustico prete ed Eleuterio diacono. Nessuno normalmente pensa che il colle Montemartiri sui monti del Chianti abbia un così celebre parallelo nella capitale francese. E, come Miniato, Dionigi dopo strazianti torture viene decapitato; poi prende la sua testa e cammina per un lungo tragitto fino al luogo della sua sepoltura dove successivamente fu costruita la grandiosa cattedrale gotica a lui intitolata, Saint Denis, e seppelliti i re di Francia. Innumerevoli opere d’arte ricordano la sua storia nella capitale francese.
San Babila. in “Elisboth” abbiamo lasciato Babila, vescovo di Antiochia, la notte di Pasqua quando mandò via l’imperatore Filippo, indegno di partecipare al banchetto eucaristico, racconto riportato dalla tradizione. Imprigionato sotto Decio, volle morire ancora legato ai ceppi di ferro con i quali era stato tenuto prigioniero. Con lui morirono tre fanciulli, Urbano, Prilidano ed Epolono che stava iniziando alla fede cristiana.
Una seconda versione vede la sua morte come la punizione inferta dopo aver negato la partecipazione all’eucarestia di un imperatore dei tempi antichi: che può essere stato lo stesso Filippo, sporco del sangue del figlio di Gordiano che avrebbe ucciso, o, secondo Malasas, l’imperatore Numeriano che si presentò sporco del sangue dei sacrifici fatti agli dei. Imperatore che, assediato a Carre dai persiani, viene catturato e scuoiato vivo.
Festa di S. Agata a Catania
Sant’Agata L’immagine di Agata forse più straordinaria non si trova a Catania, ma nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, del VI secolo, che la presenta con una tunica lunga e con la stola, segni del diaconato, insieme alle altre martiri presenti nella stupefacente processione delle donne martiri del mosaico ravennate. La tradizione peraltro racconta che intorno ai quindici anni il vescovo di Catania accolse la sua richiesta di consacrarsi a Dio, e le impose il “flammeum”, il velo rosso che veniva portato dalle vergini consacrate. Fu una degli ultimi martiri della persecuzione Deciana. In lei ci sono raccolti tutti gli elementi che abbiamo trovato negli altri: la testimonianza come persona ordinata nella chiesa, la brutalità della tortura, la sua negazione razionale dell’idolatria e il suo tentativo di convincere i persecutori. La sua passione è attraversata da un colloquio che alterna il ragionamento razionale, l’insulto verso i carnefici, e la dimostrazione palese della loro disumanità. Non fugge avendone l’occasione; la sua morte è immediatamente fatta propria da una città che la celebra ancora oggi con una grande festa.
La ‘Passio Sanctae Agathae’, della seconda metà del V secolo, è la principale fonte della sua storia; con facilità si può trovare tradotta in numerosi siti in internet.
La bellezza e il fascino della ragazza – figlia di una delle famiglie più importanti di Catania – non erano certo passate inosservate: e Quinzano, proconsole della provincia di Sicilia, per dare manifestazione del suo prestigio la fece arrestare con l’intento di sottometterla. Per prima cosa l’affida a una certa Afrodisia, che con le sue nove figlie conduceva una vita alquanto disinibita, convinto che in poco tempo la giovane avrebbe cambiato opinione riguardo alle gioie della carne. Ma Afrodisia (nome che è tutto un programma) non ha successo, pur provando, insieme con le figlie, tutte le possibili tentazioni: gioielli, vestiti, ville e, ovviamente, schiavi di ogni sesso. Allora avvisa Quinzano: “Ha la testa più dura della lava dell’Etna”, dice.
Il proconsole chiama Agata al tribunale, che arriva vestita da schiava; il colloquio tra i due rivela la grandezza di Agata, che dichiara la propria libertà e la sua nobiltà suprema, nell’essere schiava di Cristo. Come peraltro aveva anche fatto Acrisio, spiega la nullità e inesistenza degli idoli di pietra a cui sacrificano i romani. Quinzano insiste, Agata insulta lui e sua moglie, dichiarando di non aver paura né delle fiere né del fuoco. Quinzano la fa chiudere per una notte in una cella.
La mattina dopo Agata viene di nuovo interrogata, ma conferma la sua fede, invitando anche Quinzano a rinnegare gli dei.
Iniziano le torture, la ragazza è sospesa a un grande eculeo, orrendo strumento di tortura di quei tempi, a cui anche San Miniato fu sottoposto. Viene torturata alle mammelle, poi strappate del tutto.
Quinzano la rimanda in carcere, ordinando che nessuno andasse a curarla. Nella notte viene però medicata da un vecchio, che rivela essere l’Apostolo di Cristo. Le ferite sono curate, la mammella miracolosamente guarita, nel carcere splende una luce che fa fuggire le guardie, le porte sono aperte, gli altri prigionieri gridano ad Agata di scappare. Ma lei rimane, vuole portare a termine la sua testimonianza.
Dopo quattro giorni viene portata nuovamente davanti al proconsole, che la invita a non fare pazzie ma a sacrificare agli dei: Agata gli risponde nuovamente accusandolo di essere senza intelletto, perché preferisce idoli di pietra al vero Dio. Quinzano le chiede chi l’ha curata, Agata risponde Cristo: a questo punto Quinzano fa preparare una nuova tortura.
Viene preparato un letto di braci, sopra posizionati dei cocci affilati, dove Agata viene rivoltata nuda. In questo momento un terremoto scuote Catania, una parete della stanza di tortura crolla, muoiono il consigliere del giudice, Silvano e il suo amico Falconio: in altre parole i sanguinari ideatori delle torture.
Il popolo di Catania si ribella, il terremoto che ha scosso la città è un evidente segnale di Dio irato per i tormenti inflitti alla santa. Quinzano fugge. Agata, portata morente in carcere, dichiara di aver vinto tutte le sfide, e chiede a Dio di accogliere il suo spirito; emette un fortissimo grido e muore.
La folla subito celebra le esequie di Agata con grande onore, il suo corpo viene messo in un sepolcro nuovo.
Quinzano intanto sta tornando a Catania per rivalersi con i parenti di Agata, ma arrivato al fiume Simeto i cavalli si impennano, lo disarcionano, lo scalciano e prendono a morsi. Il governatore muore nel fiume, il corpo non viene ritrovato.
L’anno dopo la popolazione invoca S. Agata in occasione di una grande eruzione dell’Etna, che termina di vomitare fuoco il 5 febbraio, giorno della sepoltura della santa.
San Giusto e i Martiri del Chianti. La tradizione tramanda l’arresto di Giusto e di suoi compagni mentre andavano ad evangelizzare, e del loro martirio sul colle di Monterantoli nel Chianti. Nell’oratorio ivi esistente si trovava un’iscrizione che attestava il rinvenimento nel 1616 da parte del vescovo di Fiesole Baccio Gherardini di alcune casse piene di ossa, attribuite ai martiri e poi inumate sotto l’altare. Nel ’44 la chiesa fu distrutta nella battaglia tra inglesi e tedeschi.
Il racconto ha posto il contesto dell’arresto in un momento di lavoro, la vendemmia. Come già specificato alcuni personaggi rappresentati nel testo come Xestes, Nepius, Galeo sono immaginari, corrispondenti a figure presenti sulla scena del fatto, ma di cui ignoriamo l’identità: l’autorità religiosa, quella civile, il boia.
Nel racconto di “Elisboth” la dinamica degli eventi è stata modulata sul territorio e su una possibile logica del loro svolgimento: le retate per raccogliere le persone da esaminare secondo l’editto di Decio, la commissione insediata in uno dei templi della zona, l’arresto dei cristiani nella fortezza, le modalità di svolgimento dei sacrifici pagani. È da presupporre che prima dell’eccidio il sacrificio sia stato celebrato con particolare solennità.
Poi si ipotizza la presenza di Decio; la tradizione lo vede presente ai successivi fatti in Florentia, e non è da escludere un suo diretto passaggio anche nel Chianti, in considerazione di suoi potenziali legami con la Tuscia.
Santa Reparata. Reparata, martire siriana, fu invocata da San Zanobi nel quinto secolo durante l’assedio di Firenze da parte dei Goti; Beda, monaco, storico inglese, santo e dottore della chiesa, scrisse di lei nel 730 nel suo martirologio considerato uno dei primi “martirologi storici”. Anche il codice Magliabechiano XXXVIII.110 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, riporta la sua storia e leggenda[3].
Il racconto è molto simile alla passione di San Miniato e di Sant’Agata. L’imperatore Decio si reca a Cesarea, a perseguitare personalmente i cristiani. La giovane vergine Reparata viene portata davanti all’imperatore con l’accusa di adorare Cristo e di farsi beffe degli idoli. La ragazza, la “fantina” come scrive l’autore trecentesco, ha tredici anni ed è bellissima. Decio cerca di convincerla ad adorare gli idoli, ma la ragazza rifiuta sdegnosamente esprimendo il suo desiderio di morire per colui che l’ha creata, per il suo nome e per il suo amore. L’imperatore passa alle minacce dei tormenti e di una morte crudele, ma Reparata rinnova la sua fede.
Decio fa preparare una caldera col piombo fuso, minacciando di farglielo riversare sul capo, ma l’invocazione della ragazza a Dio fa subitamente scomparire miracolosamente la minaccia.
Continuano le torture, i ferri roventi nel petto, ma la giovane resiste. Si passa alla fornace, dove viene gettata nuda, ma non ci sono cedimenti: dalla fornace viene estratta senza alcuna ustione.
Si cambia metodo, i suoi capelli vengono tagliati a zero, e trascinata per essere vergognosamente derisa per le vie nella città: ma la ragazza non ha cedimento; hanno invece compassione e cominciano ad avere dubbi torturatori e spettatori.
Continuano gli scambi di battute tra l’imperatore, che vuol farle adorare gli idoli, e la ragazza che decisamente non vuole consentire al potente imperatore alcuna intromissione sulla sua fede. Decio comanda che si tagli la testa alla fanciulla, la quale invoca Gesù di ricevere il suo spirito.
Al momento della morte molti dei presenti videro una bianchissima colomba uscire dalla sua bocca e volare in cielo. Nella notte i cristiani nascosero con devozione il suo corpo.
La tradizione di Reparata di Cesarea racconta che dopo la sua morte il suo corpo sarebbe stato messo su una barca fatta poi andare alla deriva, e varie sarebbero state le sue destinazioni. La barca, racconta la leggenda, guidata dagli angeli, sarebbe arrivata a Nizza, in Francia, e il corpo sarebbe stato sepolto in quella che poi divenne la cattedrale di Sainte-Réparate; un’altra versione, vuole invece che la barca sia arrivata sulle coste campane e il corpo della fanciulla sia stato traslato a Teano.
Molti altri cristiani, di ogni ceto, trovarono la morte nella persecuzione di Decio. San Saturnino, vescovo di Tolosa, fu legato alla coda di un toro inferocito e così trovò la morte. Origene, il celebre filosofo e teologo, crudelmente torturato, morì alcuni anni dopo. San Massimo, un artigiano di Efeso, fu lapidato per non aver rinnegato Cristo. San Trifone, greco, giovane pastore di oche, fu decapitato. Così molti altri; questo spazio è veramente un contenitore molto stretto per poter raccontare storie così grandi
[1] Eusebio, storia Ecclesiastica, XLVIII
[2] http://www.catacombe.roma.it/
[3] Il racconto di Santa Reparata di Cesarea del codice Magliabechiano è riportato nel libro di Zeno Verlato del 2009, “le Vite di Santi del codice Magliabechiano XXXVIII.110 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze _ un leggendario volgare trecentesco italiano settentrionale”